Roma, 19 aprile 2020 A voi, cari fratelli nel sacerdozio, a voi diaconi, religiosi e religiose, a voi seminaristi e a tutti voi, figli e figlie amati del Popolo santo di Dio che è in Roma Carissimi, è nella Domenica della Divina Misericordia che vi scrivo questa lettera. Il Signore Risorto entra nelle nostre case e ci saluta donandoci la Pace Pasquale. Ci mostra le ferite impresse nel suo corpo, segno del suo amore sconfinato e della condivisione delle ferite degli uomini, e soffia su di noi il suo Spirito, per rialzarci in piedi e ridarci vita. Accogliamo il suo dono! Con questa lettera vorrei riflettere con voi sul tempo che abbiamo vissuto. Tutto è stato così imprevisto e improvviso! Come sapete, anch’io sono stato malato e in ospedale: una ferita che mi ha permesso di sentire profonda comunione con chi è stato toccato a vari livelli dalla pandemia del coronavirus. Ma quello che intenderei fare è di offrirvi alcune chiavi di lettura, quelle della fede, per scoprire il senso vero di ciò che ci è accaduto. Vado con la memoria al 29 febbraio scorso. Ricordate? Con le équipe pastorali ci siamo incontrati in Cattedrale e abbiamo vissuto una giornata intensa. Aprendo nuovamente il cuore alla Parola di Dio, abbiamo condiviso esperienze positive di ascolto del grido della città e messo a punto le indicazioni necessarie per realizzare l’ascolto contemplativo dei giovani, delle famiglie, dei poveri e ammalati. Ma soprattutto ricordate l’intervento di Padre Stefano Bittasi: commentando alcuni brani degli Atti degli Apostoli egli ci ha parlato della Chiesa che, lasciandosi guidare dallo Spirito, coglie nelle vicende della storia la chiamata di Dio a riformare la sua stessa vita, per poter realizzare al meglio la missione evangelizzatrice. Non immaginavamo certo che tutto questo lo avremmo vissuto di lì a poco in maniera così inedita e radicale! Sentiamo tutti il bisogno di fermarci, in questo momento buio, e accendere la luce della Parola di Dio, per riflettere e comprendere. Vorrei condividere con voi qualche punto su cui ho meditato e pregato in questi giorni. Sento che molta luce viene dalle parole che Papa Francesco ha pronunciato durante questa Settimana Santa così particolare. 1. Siamo nel Cenacolo del Sabato Santo Come il Papa ci ha detto nella Veglia, ci troviamo anche noi chiusi, sbarrati in casa, come gli apostoli: siamo la Chiesa nel Cenacolo del Sabato Santo. Siamo la Chiesa che, sbigottita di fronte al dolore della morte improvvisa di tante persone, si è blindata in casa, spinta anche dalla paura di incontrare gli altri. Quando “la morte nel cuore” e la paura si mescolano insieme, è proprio l’ora del buio e delle “fitte tenebre che si sono addensate nelle nostre strade, piazze e città” (Papa Francesco, Meditazione durante il Momento straordinario di preghiera in tempi di epidemia, 27 marzo). Con i giorni che passano si aggiunge anche la paura del futuro: la pandemia detta tempi lunghi al ritorno alla normalità della vita sociale e la crisi economica già sta facendo sentire i suoi effetti devastanti. In questa situazione viviamo una sorta di paralisi ecclesiale, da cui il Risorto, attraversando le nostre porte chiuse, ci vuole scuotere. Carissimi, vorrei dirvi con forza che è il Mistero Pasquale che ci dà la chiave per capire il momento che stiamo vivendo. Il Sabato Santo è infatti il giorno in cui il Cristo riposa nel cuore della terra, come il seme: muore perché porti frutto, e nel segreto si sta preparando la vita nuova. All’apparenza è tutto finito, non ci sono strade che possano aprirsi, se non quella del ritorno alla vita “senza Gesù”, come nel caso dei discepoli di Emmaus. Ma non è così per il Signore. Anche noi, in questa situazione di devastazione, custodiamo le fede che il Cristo è vivo e che l’azione dello Spirito fa germogliare cose inedite e insperate. Davanti a questa prova possiamo rimanere accasciati e disorientati, oppure imparare da quel primo Sabato Santo a occupare il tempo con gesti di cura e di dedizione. Le donne prepararono i profumi per il corpo di Gesù e senza saperlo prepararono l’alba del primo giorno della settimana. La risurrezione fu un’opera di Dio, non un’invenzione delle donne: ma, come loro, possiamo anche noi fare dei gesti che ci metteranno – in un futuro che Dio conosce, ma che è certo – nella condizione di essere raggiunti da quel che Dio farà per noi. Per questo, tenere viva tra noi la memoria di Gesù, compiere dei gesti che riempiano un tempo a volte così smisuratamente vuoto e lo orientino a Cristo, è un modo per custodire la speranza. In altre parole, per dare al Signore la possibilità di manifestarsi ancora, di mantenerci legati a sé e alla sua promessa di compimento e di resurrezione. Credo che ciascuno di noi in questi giorni sia stato protagonista e spettatore di questi gesti: pur nel buio, tanta gente in casa, nel condominio, negli ospedali, negli ostelli per i senza fissa dimora, prepara l’alba del mondo nuovo che Dio già sta donando. 2. Abbiamo vissuto una Quaresima straordinaria É stata una Quaresima di digiuno e di spoliazione di ciò che fa abitualmente parte della nostra esistenza: le relazioni viso a viso, il lavoro e la scuola, la festa, i luoghi della cultura, del divertimento e del commercio. Ma anche di spoliazione della nostra normale vita ecclesiale: il radunarsi nella comunità, la liturgia, i riti della Settimana Santa, l’accompagnamento e il saluto ai morenti. Tutto si è “concentrato” (le relazioni all’interno della stessa casa) e si è “allargato” con modalità nuove (potenzialmente raggiungiamo tutti, attraverso internet e il telefono). Come comunità cristiana in pochissimo tempo abbiamo dovuto adattarci alla situazione, o inventando cose nuove o rispolverando possibilità antiche previste per circostanze come questa (pensiamo all’assoluzione generale dei peccati impartita nei reparti ospedalieri). Ma la straordinarietà di questa Quaresima non è solo nella capacità di resilienza e di cambiamento. C’è un livello molto più profondo: in realtà abbiamo vissuto radicalmente il Mistero Pasquale di Morte e di Resurrezione. Lo abbiamo toccato con mano. Siamo stati messi con forza davanti alla realtà della morte, molto concretamente alla possibilità della “mia” morte e di quella delle persone che amo. E ancora adesso siamo di fronte al pericolo che a morire sia un’intera realtà sociale ed economica, almeno nelle forme con cui l’abbiamo vissuta finora, con tutte le conseguenze che questo comporta. Proprio come è compito e grazia della Quaresima, siamo stati condotti a misurarci con la prospettiva della morte, o comunque della possibilità di ammalarci e di morire. Di fatto, stiamo ancora vivendo una vita sospesa tra il bisogno che tutto torni come prima e l’incertezza che lo sarà per davvero. Qualcuno per la prima volta può comprendere che cosa voglia dire affermare che il centro della nostra fede è il Mistero della Morte e della Risurrezione di Cristo. Ci troviamo ad avere vissuto – tutti insieme e contemporaneamente – un’esperienza che ci mette in grado di renderci conto della scommessa che la fede è, della novità entrata nel mondo con Gesù: passare dalla morte alla vita. Stiamo vivendo in un prolungato stato di attesa che succeda qualcosa di liberatorio; di qualcuno che ci annunci che possiamo uscire a tornare a vivere senza preoccuparci di non morire. Ecco: questo è esattamente il senso del termine Vangelo. Questo è il compito che ci eravamo dati come diocesi: annunciare il Vangelo dentro alla vita concreta della nostra gente. Il Signore ci può aiutare a semplificare il compito, mettendoci nelle condizioni di andare alla radice della fede: si tratta della Pasqua. È questa la buona notizia che cambia tutto il resto. Il nostro cammino di fede (personale e di diocesi) non poteva essere portato più decisamente alla sua radice: dobbiamo avere (e tornare sempre a) quel centro che è la Pasqua. 3. Il paradigma dell’Esodo Se l’Esodo è il paradigma del nostro cammino comunitario, anche lì dobbiamo cercare le tracce di quello che stiamo vivendo e l’indicazione di ciò che Dio sta facendo con noi. Eravamo rimasti all’incontro con il Signore che, nel roveto ardente, ci aveva chiesto di scendere in mezzo al popolo per ascoltarne il grido: Lui ci avrebbe mostrato poi il cammino della libertà. In questi ultimi mesi noi gli avevamo espresso, come Mosè, le nostre difficoltà e resistenze: “sono vecchio, non so parlare, che mi diranno, ma se non sanno neppure Chi sei e qual è il tuo Nome, che ci vado a fare…?”. Tra incertezze e fuoco nel cuore siamo scesi in mezzo alla gente e abbiamo cominciato ad incontrare volti e ad ascoltare storie di vita. Di cosa avevamo bisogno per entrare con decisione nel cammino preparato dal Signore? Della Pasqua. Di morire e rinascere con il Signore Gesù. Nel nostro cuore albergano sia il faraone dal cuore ostinato, che non vuole saperne delle sofferenze del popolo di Dio, sia il Mosè fedele che segue con coraggio la Nube luminosa. La piaga della pandemia e il passaggio dell’angelo devastatore ci hanno bruscamente riportati a noi stessi e al Signore. Stai ancora seguendo come faraone i tuoi deliri di affermazione di te stesso, contro tutto e contro tutti? Oppure accetterai di diventare insieme ai tuoi fratelli un Popolo di uomini salvati da Jahwè? Il Signore sta per guidarti attraverso le strettoie delle acque del Mar Rosso per portarci all’altra riva, perché tu possa cantare con gioia come Mosè e Maria: “Stupenda è la sua vittoria”! In questo momento siamo chiusi nelle nostre case, come Israele nella notte della Veglia, per celebrare la Pasqua del Signore e fare memoria del suo amore. In Esodo 12 ci viene raccontato che questa liturgia familiare non era fatta solo di riti (l’agnello, i pani azzimi e le erbe amare) ma anche di racconti: i genitori testimoniavano ai figli la fedeltà di Dio nei secoli, la grandezza della sua misericordia, e così spiegavano il significato di una liturgia che dà luce e apre al futuro la vita, perché aiuta a trovare la direzione e il senso nelle difficoltà del tempo presente. Il Popolo di Israele non era mai stato tanto Popolo come in quel momento, quando tutte le case celebravano il memoriale del Signore; chi era povero e solo, veniva invitato dal vicino a consumare la Pasqua. Con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano: pronti a partire. Il Signore avrebbe dato il segnale per avventurarsi nella notte verso il cammino dell’Esodo, mentre la Pasqua, nei riti era già cominciata. É stato davvero così anche per noi: proprio mentre celebravamo il memoriale della Pasqua di Gesù nella maniera più povera e nascosta, nel chiuso delle nostre case, proprio ora, ci siamo sentiti un Popolo radunato dal Risorto, salvato dalla sua Croce, riempito di speranza e pronto a partire! Questa concentrazione sulle famiglie è qualcosa che non dobbiamo dimenticare, un frutto importante di questa Pasqua 2020 da portare nel cammino sempre con noi: di fatto, la pandemia ci ha riportati alla dimensione familiare della vita della fede e della Chiesa. 4. Come cerchi d’acqua La vicenda della prima Pasqua ci offre così delle chiavi con le quali aprire questo tempo – e le nostre comunità, in particolare – ad una comprensione di fede. Dall’essere forzatamente raccolti in casa per mettersi in salvo, all’uscire per lasciarsi guidare attraverso un tempo che sarà verosimilmente di deserto e di fatica, fino a raggiungere una terra che Lui ci mostrerà. Nella Veglia pasquale il Papa ci ha in qualche modo indicato questa terra, invitandoci a camminare seguendo Cristo che “ci precede in Galilea” (Mt 28,7): Il Signore ci precede, ci precede sempre (…) in Galilea, nel luogo, cioè, che per Lui e per i suoi discepoli richiamava la vita quotidiana, la famiglia, il lavoro. Gesù desidera che portiamo la speranza lì, nella vita di ogni giorno. Ma la Galilea per i discepoli era pure il luogo dei ricordi, soprattutto della prima chiamata. Ritornare in Galilea è ricordarsi di essere stati amati e chiamati da Dio. Ognuno di noi ha la propria Galilea. Abbiamo bisogno di riprendere il cammino, ricordandoci che nasciamo e rinasciamo da una chiamata gratuita d’amore, là, nella mia Galilea. Questo è il punto da cui ripartire sempre, soprattutto nelle crisi, nei tempi di prova. Nella memoria della mia Galilea. Ma c’è di più. La Galilea era la regione più lontana da dove si trovavano, da Gerusalemme. E non solo geograficamente: la Galilea era il luogo più distante dalla sacralità della Città Santa. Era una zona popolata da genti diverse che praticavano vari culti: era la «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Gesù invia lì, chiede di ripartire da lì. Che cosa ci dice questo? Che l’annuncio di speranza non va confinato nei nostri recinti sacri, ma va portato a tutti. Perché tutti hanno bisogno di essere rincuorati e, se non lo facciamo noi, che abbiamo toccato con mano «il Verbo della vita» (1 Gv 1,1), chi lo farà? Che bello essere cristiani che consolano, che portano i pesi degli altri, che incoraggiano: annunciatori di vita in tempo di morte! In ogni Galilea, in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene, perché tutti siamo fratelli e sorelle, portiamo il canto della vita!” (Papa Francesco, Omelia della Veglia di Pasqua, 11 aprile 2020). Muoversi verso le nostre Galilee: cioè verso un rinnovamento del nostro incontro originario con Cristo, della nostra prima chiamata a seguirlo; e verso una comunione universale, che ora possiamo intendere con una intensità diversa, alla luce dell’esperienza di questo tempo, nel quale ci è stato dato di sentire con più verità che siamo realmente fratelli, che la vita degli altri ci interessa e dipende anche dalla nostra, e che nessuno può salvarsi da solo. E come in questo tempo la nostra fede è stata messa alla prova, così non possiamo presumere di saper “ritornare in Galilea” se da questa prova, essa non ne è uscita più coraggiosa, cioè più libera e meno ripiegata su di sé. Con realismo: per quanto possiamo essere stati ridestati a una maggiore autenticità, come tutti i tempi di prova anche questo della pandemia ha portato in luce pure il male e il peccato di cui siamo impastati e che certamente si ripresenteranno: nelle famiglie non meno che nelle comunità cristiane o nella città. C’è anche il rischio che per qualcuno “tornare in Galilea” significhi tornare semplicemente a riprendere (in famiglia, in parrocchia, a lavoro) la vita di prima, rimuovendo quel che c’è stato, o senza aver imparato nulla. Ce lo dobbiamo aspettare: chi prima riteneva di vivere già bene, tenderà a voler ritornare alla stessa vita di prima. Per questo occorre che ci aiutiamo a raccontarci quel che è successo, come lo abbiamo vissuto, i sentimenti che abbiamo sperimentato, la forza della preghiera, le speranze e le memorie che sono affiorate, le paure e le angosce, senza rimuovere o disperdere nulla. Il cammino della nostra diocesi potrà precisarsi così come un servizio alla ripresa della vita, alla fecondità delle relazioni familiari, all’integrazione di un significato evangelico delle cose che renda l’esistenza più umana e più aperta sul futuro di Dio. Lo possiamo pensare a tre cerchi concentrici: - Primo cerchio: in esso c’è la nostra famiglia, la nostra prima Galilea. Continuiamo a condividere tra di noi sentimenti, pensieri, preoccupazioni: mettendoci in mezzo anche i pensieri e le parole che sono Parola di Dio. Sarebbe bello di iniziare questo ascolto e condivisione nei nostri presbiteri parrocchiali. Ogni parrocchia cercherà di offrire alle famiglie del materiale (scelta di testi biblici, preghiere e altro) per aiutare a vivere questi momenti in famiglia. Servirà avere intelligenza e creatività: occorre preparare bene questo materiale. Non dovrà essere pura fotocopia del catechismo o del messalino. Non dovremo necessariamente dare per presupposta la fede: servirà accompagnare e favorire un incontro tra le famiglie e il Signore, prestando orecchio alla concretezza delle varie realtà familiari. Accanto a situazioni di familiarità ritrovata, troveremo anche tensioni e difficoltà acuite e forse anche aggravate da spazi abitativi ristretti o dalla presenza in casa di ammalati o di persone difficili. Chi si trovasse in un momento di difficoltà, anche economica, sia incoraggiato a chiedere aiuto al parroco; chi può aiutare, non si dimentichi di quelli della porta accanto o dei poveri del quartiere: in questo caso, anche offrendo un contributo alimentare o economico. - Secondo cerchio: l’équipe pastorale riprende il suo cammino e il primo passo consisterà nell’ascolto reciproco tra i membri dell’équipe stessa, sacerdoti compresi. Condividiamo le nostre storie, in modo particolare come abbiamo vissuto e come cerchiamo di affrontare questa situazione in cui ci troviamo, sempre esercitiamoci nell’ascolto contemplativo: dove è il Signore Risorto in questo momento? Cosa sta facendo nelle nostre vite e in quelle delle persone del nostro quartiere? Come abbiamo visto presente e alimentata la speranza, dentro e fuori la Chiesa? Cosa tutto questo sta dicendo a noi, comunità cristiana? Verso dove ci chiede di andare? Da dove possiamo ripartire? Quale futuro ci si prospetta davanti e come possiamo contribuire a realizzarlo? Cominciate leggendo insieme questa lettera. Per le prossime settimane la Diocesi vi invierà delle schede utili per il confronto in équipe (una all’inizio del mese di maggio, un’altra prima di Pentecoste e una terza dopo). Questo materiale, insieme al sussidio biblico consegnato all’inizio dell’anno sul grido della città, potranno accompagnare questa fase della vita delle comunità parrocchiali, e sarà utile non solo per il lavoro delle équipe ma per la riflessione e la preghiera di tutti. Individuate magari alcune proposte che potrebbero interessare anche tutte le altre equipe e tutte le altre comunità della diocesi: è importante che condividiamo le ispirazioni che lo Spirito Santo ci donerà e che ci aiutiamo a riconoscere la Sua voce. - Terzo cerchio: con l’aiuto delle équipe creiamo altri luoghi/occasioni per permettere alle persone di raccontare questo tempo della loro esistenza, per poterne insieme fare una lettura che dal riconoscimento e dall’accettazione arrivi fino a una prospettiva esplicita di fede. Lo spazio delle piattaforme internet sarà (almeno all’inizio) l’unico luogo possibile, ma progressivamente che riprenderemo ad incontrarci fisicamente con tutte le necessarie misure di sicurezza, cercheremo di realizzare questo ascolto nelle case o in parrocchia: i catechisti con i genitori dei loro bambini e con i bambini stessi, gli animatori con i ragazzi e i giovani del quartiere (non solo quelli del proprio gruppo; ad esempio i professori di religione possono invitarvi ad una loro lezione in internet), i volontari con le persone in povertà (nel frattempo già molto aumentate), i malati e gli anziani in casa. Ascolti individuali o in piccolissimi gruppi, dove la Chiesa può esprimere la sua vicinanza a tutti e l’incoraggiamento attraverso la condivisione della fede e della speranza. Andranno evitati moralismi, spiritualismi, materialismi, cortocircuiti tra fede e vita. E, nondimeno, potremo leggere le nostre storie, a volte misere, in una trama che è certamente di redenzione, cioè di Pasqua. C’è un bagliore di fuoco che distrugge la notte: l’infinita carità di Cristo, la misericordia del Padre. È lui il punto che comprende, regge e sana ogni cosa. Vi raccomando la prossimità a chi è nel dolore e nella paura perché ha perso tutto. Se la Chiesa è assente in questo momento (perché pensa solo ai “suoi”) difficilmente meriterà di essere ascoltata quando parla di Vangelo. Sono sicuro che ci meraviglieremo di come tanta gente, magari non praticante, abbia provato una profonda “nostalgia di Dio”, anche solo sentendosi coinvolta da alcuni segni: il Papa solo in piazza San Pietro, il Crocifisso di San Marcello, la Salus Populi Romani, la via Crucis nella piazza deserta, una vicinanza delle loro parrocchie via internet mai prima così sperimentata. Molta gente ha percepito, attraverso quel che è successo a causa della pandemia, che c’è qualcosa dentro di loro che va aldilà dei limiti della loro persona: ha avuto coscienza di non essere sola, o ha perlomeno sperato che l’angoscia del mondo sia abbracciata da un’infinita misericordia e benevolenza, che la investe con uno scopo. Siamo chiamati ad essere il segno, povero e modesto ma concreto, di questa misericordia. Siamo stati colpiti e nutriti nel profondo dal coraggio e dalla abnegazione del personale sanitario, compresi i cappellani ospedalieri, come anche dalla gara di solidarietà che si è mossa a tutti i livelli per aiutare i più poveri. Quando potremo ritornare alla normale vita parrocchiale, alle liturgie domenicali con il concorso di tutto il Popolo di Dio? Per adesso non siamo in grado di prevederlo, possiamo solo sperare che avvenga al più presto. Vi invito a non aspettare da inerti questo momento, ma in un certo senso ad anticiparlo: come le donne nel Sabato Santo, come Israele nella veglia di Pasqua. Nei modi che ci sono possibili (e sono tanti) continuiamo la missione di evangelizzare e servire i nostri fratelli, di comunicare loro la speranza del Vangelo, a partire da una crescita interiore, nostra, che vada di pari passo, che ci riguarda e che non possiamo trascurare. Alla Madre di Dio, custode della speranza del Sabato Santo, affidiamo ciascuno di noi e la Chiesa di Roma. Vi abbraccio con affetto di padre. Invoco su tutti voi la benedizione del Signore risorto! Angelo Card. De Donatis Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma
osppe
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